Non molto tempo fa, durante un momento nostalgico, spulciando fra gli scaffali della mia casa natia, mi è capitato di imbattermi nel diario segreto di quando ero bambina. E’ stato facile divellere l’intimità di quello che un tempo era il grande custode delle mie profonde paure e dei miei reconditi desideri. Persa fra quelle pagine, ho fatto un piacevole viaggio indietro nel tempo ed è stato estremamente buffo leggere quelle parole con gli occhi di una donna adulta. Ma fra amori segreti, odio per i broccoli e atavici dubbi sulla velocità delle lumache, una pagina mi ha particolarmente colpita. Una pagina scritta esattamente trenta anni fa. Era l’autunno del 1990. Stavo per compiere undici anni, volevo diventare una famosa archeologa ed ero segretamente innamorata di Schillaci, grande eroe dell’appena concluso campionato mondiale ITALIA 90. So per certo che, con il passare del tempo, i miei gusti in fatto di uomini sono cambiati, ma una cosa non è mutata: la mia naturale tendenza ad osservare il mondo e la necessità di interpretarlo per trovare una spiegazione plausibile, una tinta unita che renda tutto omogeneo e non crei troppa confusione. Proprio nel mezzo del diario campeggiava un titolo: GUERRA DEL GOLFO. In quelle pagine, io bambina di dieci anni o poco più, raccontavo con parole acerbe la guerra che era appena scoppiata non molto lontano da me. Parlavo di eserciti, di telegiornali, di sguardi allarmati, di supermercati presi d’assalto (Il sale. Mancava soprattutto il sale. Chissà perché), di aerei e bombe, ma soprattutto parlavo del fantasma che terrorizzava le mie giornate: “Ho paura che papà vada in guerra”. A distanza di tanti anni, ricordo chiaramente quelle emozioni che mi trovo spesso a condividere con coetanei che hanno vissuto scenari analoghi. Non ne parlavo in casa. Forse temevo di urtare la sensibilità dei miei genitori o semplicemente rifuggivo risposte scomode. Osservavo. Guardavo da lontano mia madre, ne studiavo le espressioni, ne registravo le emozioni. La guardavo correre e intimare il silenzio con un rapido gesto della mano, quando dalla tv riecheggiava la sigla delle edizioni straordinarie dei tg. Cercavo di capire quale fosse il momento giusto per tacere o parlare. L’osservato speciale, rimaneva però mio padre. Il sospettato numero uno. L’unico che avrebbe potuto darmi risposte certe. Il solo in grado di farmi capire, se il Kuwait necessitava con urgenza di un soldato in più da schierare in trincea. E allora come una piccola Sherlock Holmes, ne scrutavo ogni movimento, soprattutto quando capivo che stava per uscire di casa. Se varcando l’uscio, non portava con sé grandi zaini e abiti militari, allora eravamo tutti salvi! Quanta fatica e quanta paura, bambina mia! Non sono diventata archeologa (o forse sì, visto che con il mio lavoro “scavo” molto), non ho mai conosciuto Schillaci e di anni ne ho quaranta. In questo momento sono una psicologa in ciabatte che cerca, come tutti, di trovare un equilibrio dentro una situazione nuova ed improvvisa. Esattamente come trenta anni fa, osservo, scruto, interpreto. Cerco la mia tinta unita. Questa volta l’osservato speciale è mio figlio, che ha la stessa età della bimba del diario e che si è trovato suo malgrado ad essere testimone di una guerra senza soldati e carri armati, ma con un nemico invisibile che fa paura tanto quanto le bombe. Un bambino che ha perso nel giro di pochi giorni la sua routine, i compagni di scuola, lo sport, gli spensierati pomeriggi al parco; che vuole risposte da te che sei un adulto e pretende di sapere perché il virus ha colpito così duramente proprio l’Italia; che chiede, puntandoti addosso i suoi occhietti neri, se alla fine moriremo tutti; che costruisce piccole mascherine per i suoi gatti, perché anche loro hanno bisogno di protezione; che ti osserva silenzioso mentre ascolti un notiziario, per capire come stanno andando le cose là fuori; che percependo il tuo nervosismo, ti lancia un sorriso o una smorfia buffa per farti sorridere; che si dimostra saggio quando racconta alla maestra che alla fine il virus gli ha fatto il regalo più bello: il tempo con mamma e papà; che comprende l’importanza delle scomode regole che ci permetteranno di uscirne sani e salvi; che svela il proprio coraggio, quando si pianta come un corazziere sull’uscio, per impedirti di uscir di casa e correre pericoli. Tante volte avrei voluto farlo con mio padre per impedirgli di diventare un soldato! Mentre lo ascolto raccontarmi delle sue paure e lo osservo adattarsi con sorprendente velocità a questa nuova condizione, mi ritrovo ad imparare un nuovo modo di fare la mamma e mi accorgo che è proprio lui ad insegnarmelo. Me lo insegna quando mi chiede tacitamente di essere una mamma con meno risposte, ma più tempo per giocare; con più paure, ma tanti abbracci che le facciano andar via; con meno torte da sfornare, ma più libri letti insieme a pancia in giù sul tappeto; con meno libertà di uscire, ma un sacco di progetti per il futuro; con meno fretta, ma con più noia che aguzza l’ingegno; con meno pazienza e qualche urlo in più forse, ma con la reciproca autorizzazione a vivere in libertà la propria imperfezione. E così, fra trenta anni anche mio figlio avrà la sua guerra da raccontare e forse, anche delle bandiere tricolore da sventolare durante un campionato del mondo tutto italiano. Cosa diventerà lo racconterà il futuro. Di chi si innamorerà lo decideranno la sua pancia e il suo cuore. Fra trenta anni avrà anche una madre nuova da raccontare, più bianca, diversa, più coraggiosa, come tutti coloro i quali si ritrovano a essere madri e padri in questi giorni difficili. Una madre che è “diventata grande” grazie a lui ed a un microscopico virus. Una madre che lui stesso ha plasmato e creato senza esserne totalmente cosciente. Ma questo lo sapremo solo lui, io e un diario segreto.
Dal blog #lapsicocosa
Comments