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L'arte della cura insegnata da una pianta

Aggiornamento: 30 nov 2020

Sono solita ammettere i miei limiti. Per esempio, non sono una cima in matematica, per me 4×4 è il modello di una poderosa Fiat Panda anni ’80. Sono fortemente analogica e guardo con estremo sospetto chi preferisce l’agenda digitale a quella cartacea. Non amo lo sport, mi chiedo da sempre perché occorra pagare per sudare dentro una palestra. Non ho il pollice verde, ma mi ostino a comprare piante che, ahimè. sanno già di essere condannate. E’ per questo che in casa mia, oltre alle note e fintissime piantine IKEA, campeggia un’unica pianta: uno spathiphyllum. La signora del vivaio, una donna imponente con le mani più grandi e callose che io abbia mai visto, mi aveva assicurato che avrebbe avuto bisogno di poche cure, che avrei “potuto dimenticarla”. Non me la sentivo di deludere l’imponente vivaista, e così la pianta l’ho davvero dimenticata.

Il povero vegetale nel tempo ha subito una serie di trasformazioni. Da rigogliosa e lucida pianta decorativa, a pianta in seria difficoltà esistenziale con foglie opache puntellate da simpatiche macchioline marroni, fino a diventare un cespetto informe, simil insalata che staziona da troppo tempo nel ripiano più basso del frigorifero. Viveva a stento, ma non dava cenno di voler mollare. Ovviamente, i miei tentativi di rianimazione della poveretta, sortivano effetti solo a breve termine e di tornare dalla signora dalle mani callose per chieder consigli, proprio non me la sentivo. Lei sopravviveva. Io la guardavo sopravvivere.

Poi è arrivata la quarantena. La casa si è aperta a nuove abitudini, a nuovi ritmi, odori, luci, colori. Quella casa che vedeva i suoi abitanti uscire al mattino e rientrare a scaglioni quando fuori era già alta la luna, all’improvviso è diventata affollata. Voci, parole, pizze e torte homemade con le ricette chieste alla nonna via skype, smartworking con colleghi impigriti, videochiamate con parenti chiassosi e poi TV, whathapp, finestre da cui intravedi vicini mai conosciuti prima, yoga sul tappeto, il gatto che miagola e sembra bramare la sua vecchia intimità e ancora voci e luce. Fra una focaccia e un momento di noia, ti accorgi che in un angolo c’è ancora lei. La pianta. E così, passando le offri da bere, togli quella fogliolina ingiallita, allontani il gatto che decide di bivaccare fra le sue fronde e lentamente non è più la stessa, sembra rinata. Il fogliame si è sorprendentemente moltiplicato e brilla di un intenso verde speranza, quasi come quando la presi dalle mani della teutonica vivaista. Assomiglia ancora ad un cespo di insalata, ma cavolo, è un bellissimo cespo di insalata!


Non è servito poi molto. E’ bastata un po’ di cura. Non una laurea in botanica o un master in scienze della decorticazione anulare e della cimatura. Solo un po’ di cura. Ci aggiungerei un pizzico di fiducia, perché lei, la pianta, non ha mai smesso di confidare in me, proprietaria sbadata e frettolosa. Ed in fondo, io non ho mai dubitato che lei potesse farcela. Riflettendoci bene è quello che accade a volte nelle relazioni, che da lussureggianti piante decorative diventano per incuria o distrazione, moggi cespi di insalata. Accade che fra la routine, il lavoro, l’abitudine, la fretta, tutto rotoli sui binari del tempo, tutto venga dato per scontato e lentamente lasciato all’incuria, nella speranza o forse nella convinzione che un amore, un’amicizia, un legame, possano auto alimentarsi e resistere alle stagioni. Succede che qualcosa o qualcuno ci faccia pensare che possiamo dimenticarcene. Capita che si passi accanto alle fronde di un rapporto, che si guardino distrattamente quelle foglie ingiallite e si pensi che in fondo, le si potrà estirpare dopo. Dopo aver portato a termine quel lavoro. Dopo, quando si avrà tempo. Dopo, quando sarà il momento giusto. Dopo… Nel dopo però ci si può perdere. E’ un tempo imperfetto nel quale ci si può dimenticare che l’altro, per risplendere, ha bisogno anche di noi, della nostra energia, della nostra luce, della nostra voce. E che noi, abbiamo bisogno di acqua e nutrimento che solo l’altro può donarci.

E allora non serve poi molto. Basta una carezza che consoli, una parola che faccia compagnia, un “come stai oggi?” che fa sentire importanti, un “posso fare qualcosa per te?” che regala sicurezza, un abbraccio che fa dimenticare un dolore, un silenzio in cui potersi perdere, un sorriso che illumina la giornata. Insomma, basta solo un po’ di cura.


Questa quarantena ci sta insegnando il potere dell’ assenza, che può diventare incuria o desiderio di cura. E’ un’occasione unica per definire la qualità delle nostre relazioni, per porgere una carezza virtuale a chi amiamo, per rinforzare quell’amicizia a cui teniamo tanto, per non dimenticare chi ha bisogno di noi ed attingere energia da chi è importante nella nostra vita. Allora non serve poi molto per mantenere vigorose le fronde delle nostre relazioni o per rivitalizzare trascurati rapporti umani…basta solo un po’ di cura!


Dal blog #lapsicocosa



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